Nel cuore del Vangelo risuona una beatitudine sconcertante ed essenziale:
Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli (Mt 5,3). Questo primo passo del discorso della montagna inaugura un radicale capovolgimento della logica umana.
Ma che cosa significa davvero essere poveri in spirito? Non si tratta solo di una condizione materiale o economica, ma di una disposizione interiore, di una povertà del cuore che si realizza come distacco radicale da ogni forma di possesso — anche il più sottile, quello del proprio io. È una via di spoliazione totale, di libertà, di abbandono fiducioso nelle mani di Dio.La povertà evangelica è, prima di tutto, uno svuotamento. Non è una virtù sociale, ma una condizione spirituale.
La povertà evangelica, infatti, non indica semplicemente una condizione materiale ma una via di spoliazione interiore, una morte del sé che apre alla libertà dello Spirito. Nella sua opera, Antonella insegna che povertà indica svuotamento. Nel Vangelo, Gesù non esalta la povertà come mancanza in sé, ma come disponibilità. Il povero in spirito è colui che non trattiene, che non possiede nulla come proprio, nemmeno sé stesso. È colui che vive “abbandonato” nel senso più alto, si affida e lascia portare “sulle ali della grazia” dice Antonella: si lascia condurre.
Questo svuotamento è una kenosi, una discesa: il discepolo è chiamato a svuotarsi del proprio io per diventare trasparenza di Dio. Dio in Dio. È una povertà che non si misura in beni perduti ma in sé disarmato.
La morte dell’ego, morte mistica, di cui parla tanto Antonella nei suoi libri e interventi. La povertà evangelica è un cammino di morte e rinascita. Morte del sé costruito, dell’io possessivo, identitario. Costruito su false certezze, manipolatorio. Quel sé che cerca conferme, che accumula successi, relazioni, giudizi, per non sentire il vuoto e la lontananza dalla evra sorgente di Vita che abita dentro.
Essere poveri secondo il Vangelo significa lasciar morire questo ego. Rinunciare a definirsi. Rinunciare ad aver ragione. Rinunciare persino al bisogno di essere buoni agli occhi degli altri. È un cammino verso la verità libera da ogni maschera. La liberta, spiega Antonella, è agire secondo la misura, conformarsi alla misura della forza creatrice. Contribuire alla spinta dell’Amore.
Il povero evangelico non dice “io sono questo” o “io faccio quello”, ma vive nell’Io Sono, Coscienza Cristica, che non si afferra ma si riceve. Chi è povero nel senso evangelico è anche libero. Libero da tutto ciò che trattiene e irrigidisce: le aspettative, le pretese, le illusioni, gli attaccamenti sottili che incatenano anche il cuore più generoso. La libertà evangelica.
Perfino le virtù possono diventare un possesso: la generosità può nutrire il narcisismo spirituale, la bontà può nascondere il bisogno di essere amati. Il povero evangelico non si identifica con nessuna di queste maschere.
Come diceva Simone Weil, la povertà perfetta è non essere padroni di nulla, nemmeno di sé stessi, per diventare capaci di ricevere.
La povertà evangelica è allora abbandono fiducioso, resa, spoliazione. Spazio aperto in cui lo Spirito può entrare, abitare. È una povertà gravida, feconda, che genera silenzio, pace e una gioia che non dipende da niente e da nessuno.
Chi vive questa povertà è paradossalmente ricco: perché non ha bisogno di nulla, e quindi possiede tutto in libertà. È ricco della Presenza. Cammina nella notte della fede, nella nuda fiducia.
La povertà evangelica è lo spazio in cui l’Amore può dimorare. Solo chi è povero può amare senza possedere. Solo chi è libero da sé può accogliere l’altro come altro. L’amore che nasce da questa povertà non invade, non trattiene, non si appropria. È l’amore che si lascia attraversare. La povertà evangelica è allora, nel pensiero di Antonella, nudità, senza scuse, senza maschere, senza pretese. Disponibilita totale, appartenenza.
La porta stretta che conduce alla vita. È il grembo, la soglia del Regno, che cresce in segreto dove il cuore ha imparato a lasciar andare.
Questa morte dell’ego non è annullamento dell’identità, ma la sua trasfigurazione. Il vero sé non nasce dall’accumulo di tratti, ma dal lasciarsi plasmare dall’amore. Chi è povero in spirito non dice più “io” in senso possessivo, ma vive nell’Io Sono di Dio. Presenza.
Chi muore al proprio ego trova la vita eterna, parafrasando Giovanni.