Il verbo greco μένω (menō), che significa “rimanere, dimorare, abitare”, ha un’importanza fondamentale nel Vangelo di Giovanni. Questo verbo assume nel quarto vangelo una valenza spirituale e teologica particolarmente profonda.
In Giovanni, μένω appare ripetutamente in contesti che sottolineano l’unione e la comunione con Cristo. Un esempio significativo si trova in Giovanni 15:4-5: “Rimanete (μείνατε) in me e io in voi. Come il tralcio non può da sé portare frutto se non rimane (μένῃ) nella vite, così neppure voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane (μένων) in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla“.
In questo bellissimo passaggio, il verbo μένω indica un legame intimo, vitale, dinamico tra il credente e Cristo. Giovanni utilizza questa immagine della vite e dei tralci per esprimere come il rimanere in Cristo, Amore e Luce, sia una condizione essenziale per la fecondità spirituale. Rimanere in quella presenza, che è fonte di vera Vita.
- Giovanni 4:14 (alla Samaritana)
«Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua che zampilla di vita eterna».
Acqua che non si esaurisce, la sete si trasforma in sorgente. Linfa che genera vita. Se rimaniamo in Te, la nostra vita diventa grappolo di luce, pane condiviso.
Giovanni 14:23: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e prenderemo dimora (μονὴν) presso di lui“. Qui la radice del verbo μένω si manifesta attraverso il sostantivo μονή (monē), indicando la “dimora” stabile e permanente di Dio nell’anima di cui colui che risponde all’Amore e “custodisce (τηρέω, tēreō) la mia parola”.
La scelta di μένω da parte di Giovanni sottolinea così una dimensione relazionale e spirituale profonda. Relazione continua e costante, caratterizzata dall’intimità e dalla reciprocità tra Dio e l’uomo.
Negli altri vangeli, μένω appare con sfumature diverse ma comunque significative. Per esempio, in Luca 24:29 i discepoli di Emmaus chiedono a Gesù risorto: Resta (μείνον) con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino. I discepoli implorano la presenza interiore del Cristo, affinché la sua luce non li abbandoni nel momento in cui il sole tramonta. La sera, nel linguaggio biblico e contemplativo, è il tempo in cui le forze vitali si attenuano, la luce esteriore si ritira, e l’essere umano resta più vicino alla propria interiorità. “Si fa sera” rappresenta il limite della condizione umana: la fatica, la stanchezza, la percezione della morte. Ma anche il momento propizio della rivelazione: quando la luce esteriore cala, la luce interiore può emergere.
“Il giorno già volge al declino” indica un passaggio esistenziale: il tempo che fugge. Qui i discepoli si fanno voce di tutta l’umanità, che davanti alla caducità implora la Presenza che non tramonta. Il declino è soglia: in quel limite, Cristo si rivela nello spezzare il pane, cioè nella comunione che trasfigura la fine in inizio. È la preghiera della contemplazione quando la mente tace e resta solo il desiderio che l’Amore non si allontani. La vera rivelazione del Risorto non avviene nella luce abbagliante del mezzogiorno, ma nel crepuscolo. Il “resta con noi” è la voce dell’anima che, fragile davanti al limite, sente che solo l’Eterno può abitarla e trasfigurare la sera in aurora.
“Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui.” (1Gv 3:24)
Rimanere nella Parola (Gv 15:7), rimanere nel suo amore (Gv 15:9). Tutto questo non per obbedire per dovere, ma per rimanere uniti all’amore stesso di Dio.
1 Giovanni 4: 6: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio“.
Essere figli di Dio: generato da Dio, che conosce Dio, ne fa esperienza, “chiunque ama”, chi risponde all’Amore e si confà a alla misura dell’ordine divino, chi agisce secondo la forza creatrice, chi agisce secondo lo Spirito, chi cammina come figlio della Luce.
Καὶ ἡμεῖς ἐγνώκαμεν καὶ πεπιστεύκαμεν τὴν ἀγάπην ἣν ἔχει ὁ θεὸς ἐν ἡμῖν. Ὁ θεὸς ἀγάπη ἐστίν, καὶ ὁ μένων ἐν τῇ ἀγάπῃ ἐν τῷ θεῷ μένει καὶ ὁ θεὸς ἐν αὐτῷ μένει.
1 Giovanni 4: 16: “E noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui.”
“Rimanere in Dio” significa vivere costantemente nella sua presenza e nel suo amore. Rimanere come fedeltà alla verità.
In 1 Giovanni 2:24, μένω è usato per descrivere la permanenza dell’insegnamento cristiano: “Ciò che avete udito fin da principio rimanga in voi“.
Aderire alla verità della fede senza scarto. Rimanere come segno di autentica appartenenza.
1 Giovanni 3:24: “Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui“.
Quindi, abbiamo visto come bei discorsi giovannei Gesù si presenta come colui che dona l’acqua viva (Gv 4:14; Gv 7:37-38). L’acqua è simbolo primordiale della vita, ma qui acquista un senso nuovo: effusione dello Spirito Santo, capace di rigenerare l’uomo nella sua profondità. L’acqua che Cristo dona diventa sorgente interiore, cioè principio permanente di vita divina che zampilla di l’eternità.
Il discorso della vite (Gv 15:1-8) sviluppa lo stesso tema con un’altra immagine: il credente è come un tralcio unito al tronco. Il tralcio non può portare frutto da sé, se non rimane nella vite. Analogamente, l’essere umano non possiede la vita in sé, ma la riceve come linfa che scorre da Cristo. Rimanere in Lui significa essere nutriti dalla sua stessa vita, partecipare della comunione trinitaria.
Le due immagini – acqua viva e vite – convergono in un unico insegnamento: la vita autentica scaturisce solo dal “rimanere” in Cristo, Amore e Luce. Non basta un contatto episodico, né un attingere momentaneo; si tratta di una dimora reciproca, costante, rimanere in quella presenza. Così come l’acqua non resta stagnante, ma scorre, e la linfa non si ferma nel tronco, ma passa nei tralci, allo stesso modo la vita divina non si chiude in noi, ma ci attraversa per diventare dono, pane condiviso, amore che salva.
Il discepolo, allora, è chiamato a diventare canale: l’acqua viva ricevuta deve traboccare come fiume che irriga il deserto, la linfa deve maturare grappoli di frutti che nutrono la comunità. Solo così “siamo davvero vivi”: quando ci lasciamo trasformare in strumenti attraverso cui la Vita stessa di Dio si comunica al mondo.
Essere figli di Dio non è titolo o privilegio, ma nascita interiore: generati da Dio. Non per sangue, né per volontà umana, ma per dono dello Spirito che plasma dall’interno. Il figlio di Dio agisce secondo la forza creatrice: partecipa al dinamismo dello Spirito. Essere figli significa camminare nella Luce, fedeltà a una Presenza che abita dentro.
Dio abita nel cuore del credente come risposta all’amore.
L’amore è la porta della rivelazione: solo chi ama può comprendere e vedere Gesù. La fede è relazione viva. I comandamenti non sono imposizioni, ma espressioni di amore reciproco. Dio abita nel cuore di chi custodisce la parola, di chi accoglie l’amore: il credente diventa tempio vivente, luogo della presenza divina. La manifestazione è intima. Il mondo non può vedere perché cerca segni esteriori, non una trasformazione interiore.
Il “mondo” (κόσμος) non può vedere né conoscere questa manifestazione,
perché rifiuta di accogliere e custodire la parola.
Il criterio discriminante non è l’intelligenza, ma l’amore: chi ama, accoglie e vede; chi non ama, resta cieco e lontano. Dio abita permanentemente nel cuore di chi ama e custodisce la parola.
In Giovanni 14:21-24, Gesù rivela la dinamica della vita cristiana:
L’amore trasforma il discepolo in luogo di comunione con Dio. Chi non ama, si auto-esclude, non per punizione, ma perché rifiuta di aprire il cuore. Questi versetti mostrano il cuore del Vangelo di Giovanni: l’iniziativa divina che desidera abitare nell’uomo, realizzando la promessa di una relazione eterna e reciproca tra Dio e i suoi figli.
Il verbo tēreō significa letteralmente “custodire come un tesoro”, indica un atteggiamento interiore di fedeltà, come Maria che “custodiva nel cuore” le parole di Dio (Lc 2,19). Comandamento è vissuto come espressione d’amore.